Storia di VeneziaPagina pubblicata 28 Maggio 2018
Aggiornamento 23 Febbraio 2022 Indagine sulla Serrata del Maggior Consiglio
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La vicenda di Bajamonte Tiepolo e della sua congiura, risalente agli albori del XIV secolo, incise così profondamente sulla vita e l'immaginario dei Veneziani che la breve filastrocca era ancora viva nella memoria popolare di Venezia al tempo della mia infanzia, dopo la metà del XX secolo. La strofa su Bajamonte Tiepolo mi veniva infatti recitata anche da mia madre (che non era un'erudita ma un'ostessa) quando a brani e lacerti cercava di spiegarmi la Storia di Venezia. Ma Bajamonte Tiepolo non aveva questa reputazione nei decenni che precedettero e nei mesi che seguirono la caduta di Venezia dallo stato di Repubblica. La questione della congiura Querini-Tiepolo meglio nota come "Congiura di Bajamonte Tiepolo", allora, e nei secoli precedenti, mostrava una vitalità e una presa sociale sul Popolo di Venezia ben più intense della semplice sopravvivenza di una filastrocca. La figura di Bajamonte Tiepolo, per quello che possiamo leggere nelle carte e nei discorsi del tardo Settecento, era divenuta emblematica per quei veneziani che guardava alle "nuove idee d'Oltralpe" come a una speranza di ritorno alla naturalità primigenia della Repubblica, ormai da circa un secolo gravemente impastoiata nella corruzione e nel dominio incontrastato di pochi "paroni de Venessia", discendenti dinastici o politici di coloro che avevano represso la Congiutra di Bajamonte Tiepolo. In questa fazione trovavano luogo gaudenti come Francesco Battaja, che mal soffrivano l'ipocrita perbenismo di cui si ammantava la società veneziana, idealisti fragili come Ugo Foscolo e ribelli sfortunati e raggirati come Carlo Contarini. Era la fazione più eterogenea, ingenua e sciocca tra quelle in gioco, tuttavia per tradizione imputava la decadenza di Venezia dallo stato aulico di Repubblica proprio a quelle leggi e quell'Albo d'Oro, instaurati dal doge Pietro Gradenigo e dai suoi accoliti, che vanno sotto il nome di "Serrata del Maggior Consiglio" e che innescarono la rivolta di Bajamonte Tiepolo. Dai discorsi riportati nella "Raccolta di Carte del Veneto Governo" (vol. III, 1797) risulta evidente che il mito di Bajamonte Tiepolo difensore della Repubblica di Venezia era ben vivo, al punto che ci fu chi propose di scolpire delle lapidi che lo ricordassero come eroe e altre che bollassero il Gradenigo come sordido tiranno. Le medesime "Carte" testimoniano che in quell'atmosfera infuocata vi fu un medico, Francesco Aglietti acceso "giacobino", il quale volle il suggello della documentazione storica su quelle lapidi da apporre all'eroismo di Bajamonte Tiepolo. Aglietti indisse dunque un concorso fra gli eruditi offrendo ben 50 zecchini a chi fosse riuscito a scovare i documenti che dovevano scagionare gli antichi congiurati e trasferire l'infamia della Storia sul Doge Pietro Gradenigo. Tra questi, per motivi a lui stesso non chiari, vi fu anche l'abate Cristoforo Tentori. Per chi lo ha conosciuto attraverso le sue opere, e soprattutto attraverso la "Raccolta Cronologica di Documenti Diplomatici" è ben chiaro che Tentori non aveva la benché minima simpatia per giacobini, Francesi e democratici in genere. Pubblicò anzi dei libelli con lo pseudonimo di Pandolfo Malatesta dove si condannava il nuovo corso delle cose e si mettevano alla berlina quei patrizi che avevano tradito la Repubblica di Venezia parteggiando per Napoleone. Perché dunque si iscrisse a quella tenzone? La sua biografia e le conclusioni cui giunse in quella ricerca rendono evidente che non si trattava di cupidigia per il premio. Lui stesso non sa dire altro che vi fu spinto "da irresistibil comando".(1) Sulla questione di Bajamonte Tiepolo, Tentori redasse un opuscolo: "Il vero carattere politico di Baiamonte Tiepolo, dimostrato dall'unanime consenso degli storici veneti ed esteri". In questa relazione egli giunge alla conclusione opposta di quella desiderata dall'Aglietti. Tentori ritiene di poter dimostrare con ampia documentazione d'archivio che Bajamonte Tiepolo fu in effetti un aspirante tiranno e che la Serrata del Maggior Consiglio voluta dal Gradenigo fu un bene per la sopravvivenza della Repubblica. Da allora la damnatio memoriae della congiura di Bajamonte Tiepolo divenne un fatto condiviso da tutte le versioni della Storia di Venezia. Va detto che dei dodici eruditi in concorso Tentori fu l'unico a formulare questa sentenza. Gli altri undici presentarono relazioni che suffragavano invece la tesi apparntemente desiderata dall'Aglietti che collocava Bajamonte Tiepolo sull'altare degli Eroi Repubblicani. Ciononostante, il medico "giacobino" decise di dar credito alla versione dell'abate, lodandone l'imparzialità e rimproverando agli altri studiosi di aver voluto piegare la Storia al desiderio del premio in zecchini. Questa conclusione Settecentesca sulla vicenda storica di Bajamonte Tiepolo mi ha fatto scattare un campanello d'allarme logico. Se davvero era intenzione dell'Aglietti creare un "protomartire", dal momento che dal tono dei suoi discorsi ben si evince la sua natura di demagogo, perché decise di dare la palma della vittoria proprio all'unica relazione che smentiva la sua tesi su Bajamonte Tiepolo? Gli sarebbe stato facilissimo squalificare l'abate anche solo per il suo abito di prete e per la posizione politicamente reazionaria di cui l'Autore non faceva certo mistero. Annoterei en passant che il discorso più infuocato su Bajamonte Tiepolo l'Aglietti lo tenne proprio di fronte alla popolazione di Murano. Come vedremo, la podesteria di Murano era stata l'unica a rifiutare l'appoggio richiesto da Pietro Gradenigo contro i congiurati. Esisteva inolre un attrito secolare fra l'Isola e il Palazzo Ducale perché il Governo di Venezia aveva disatteso alcune promesse fatte ai Muranesi quando sull'isola furono spostate tutte le fornaci. Murano avrebbe dovuto godere di uno status di autonomia amministrativa se non politica che non fu mai attuato. Se anche la relazione di Tentori su Bajamonte Tiepolo fosse stata da considerarsi veritiera, la scelta di Aglietti non era e non è congruente con lo spirito del demagogo né con quello dell'epoca, dove il culto della verità era appannaggio di ben pochi. Viene spontaneo dedurre che il vero scopo di Aglietti fosse proprio quello di screditare definitivamente l'idolo antico dei patrioti repubblicani in Venezia e minarne psicologicamente le convinzioni. Potremmo forse parlare di una versione "ideologica", dedicata all'intelighenzia veneziana di quel "Piano Landrieux" che riuscì a far sgominare l'analoga fazione in Lombardia e nella Terraferma veneta dall'apparato repressivo veneziano. Né possiamo dimenticare che gran numero dei Savj oligarchi si riciclò direttamente nel ruolo di demagogo della nuova Municipalità e che fra questi figuravano ancora i nomi di Gradenigo, Dolfin, Michiel, Morosini e d'altre famiglie legate ai fautori dell'antica "Serrata del Maggior Consiglio".
>---*---< Ma lo era, veritiera, la relazione di Tentori su Bajamonte Tiepolo? Solo recentemente ho potuto localizzare in Google Books una copia di quell'opuscolo e la sua lettura ha moltiplicato i dubbi e le domande. La tesi dell'Abate, sulla quale si è poi modellata la versione ufficiale dei fatti giunta fino a noi, vuole attribuire i moventi della congiura di Bajamonte Tiepolo ad attriti che si sarebbero verificati tra alcuni esponenti della famiglia Querini e il Gradenigo, soprattutto in merito alla difesa della città di Ferrara assediata dall'esercito pontificio. In Venezia si crearono due partiti, uno che riteneva Ferrara indifendibile, incline quindi a ubbidire al Papa e uno invece deciso a contrastarlo. La prima fazione faceva capo a Giacomo Querini spalleggiato dai suoi familiari e da esponenti delle Famiglie Tiepolo, d'Oro, Barozzi e Badoer. La risposta bellicosa causò l'arresto di moltissimi Veneziani in varie parti d'Europa sottomesse al volere pontificio ma infine la guerra aperta fu evitata da Marco Querini che, lasciando la città di Ferrara senza combattere, ristabilì lo stato di pace fra Venezia e la Santa Sede. La fazione del Gradenigo tacciò pubblicamente di traditore il Marco Querini, ma egli non fu imputato ufficialmente. Secondo il nostro Abate la mancata imputazione si dovrebbe a un "riguardo" nei confronti del suo "cospicuo Casato" ma questo non è neppure pensabile. A riprova di questa insostenibilità del "riguardo per il Casato", abbiamo che in quegli stessi mesi un altro Querini fu imputato e condannato per un reato assai minore, una colluttazione con Marco Morosini. Si lasciò tuttavia che la calunnia di tradimento circolasse in Venezia e Marco Querini, per quell'infamia, perse la corsa a un posto di Consigliere del Doge in favore di Doimo da Canal. Questa nomina fu ritenuta illegittima dai Querini e dai loro, e si giunse addirittura alle mani in Maggior Consiglio con i sostenitori del Doimo. In quel rovente clima cittadino vi fu appunto lo scontro tra Marco Morosini Signor di Notte e Pietro Querini che si oppose violentemente all'essere da quello perquisito. Pietro fu condannato dalla Quarantia, e dovette pagare la pena. Secondo il Tentori, dunque, i Querini a questo punto si sentirono sempre più offesi, calunniati e discriminati, maturando l'idea della ribellione armata. Si persuase Marco Quirini essere l'impresa di facile riuscita a cagione dell'odio che il Popolo nutriva contra Pietro Gradenigo innalzato dalli 41 Elettori al trono Ducale, non ostante che fosse dalla Plebe acclamato Giacomo Tiepolo figlio del Doge Lorenzo Tiepolo, non meno che a causa degl'infelici successi dell'ultima guerra con tanto calore, ed ostinatezza sostenuta dal Gradenigo. Nonostante Marco Querini si sentisse un salvatore della Patria per avere scongiurato la guerra con il Papa, egli sapeva che il suo prestigio in Venezia era stato minato dalle calunnie della fazione avversa e pensò quindi di non guidare la ribellione in prima persona ma sotto l'egida del genero Boemondo Tiepolo, poi divenuto noto come Bajamonte. Bajamonte Tiepolo era figlio del Doge acclamato ma non eletto Giacomo Tiepolo, nipote e pronipote di due altri Dogi di grande prestigio e gloria, rispettivamente Lorenzo e Giacomo. Anche verso di lui la Repubblica di Venezia non aveva avuto riguardi, e qualche anno prima egli aveva dovuto pagare una grossa ammenda per delle irregolarità quando ricopriva la carica di Castellano a Modone e Corone. Bajamonte Tiepolo, secondo molti dei cronisti citati da Tentori, godeva di grande favore popolare, sia per la gloria dei suoi antenati che per il suo carattere generoso e aperto che per la grande ricchezza di cui disponeva. Più d'una, fra le citazioni riportate dal nostro Abate, ipotizza che tra le ragioni della rivolta ci fosse non già il rancore personale ma un motivo politico, la volontà di annullare la Serrata del Maggior Consiglio e l'Albo d'Oro. In molti altri cronisti si afferma invece che intenzione dei congiurati era di instaurare la tirannide e spartirsi il Dominio Veneto. Questa affermazione è però stereotipa, sembra praticamente copiata da cronista a cronista. Perché l'Abate trascurò del tutto di considerare le prime, formulando il suo giudizio su Bajamonte Tiepolo solo sulla base delle seconde? Forse giocò la sua volontà di umiliare i democratici e i repubblicani privandoli di tale e tanto ascendente storico? Segue una serie di "scrittori inediti" scovati dal Tentori, tutti concordi nel definire Bajamonte Tiepolo un ribaldo. Ma su questi "scrittori inediti" non può dimenticarsi la tara del loro provenire quasi tutti dalla libreria di Giuseppe Gradenigo, "Cittadino erudito in Santa Sofia"... L'Abate conclude la disamina delle fonti sulla congiura di Bajamonte Tiepolo con la citazione di numerosi testi in latino. Forse al fine di confondere ulteriormente le acque, sempre in latino seguono le "grazie" concesse ai congiurati di Bajamonte Tiepolo sopravvissuti se rispetteranno l'esilio, "commemoriali" che trascrivono i carteggi tra i Veneziani e i Trevisani in merito all'esilio del Bajamonte Tiepolo e "referte" di informatori che riferiscono sui contatti della congiura in Terraferma. Questi documenti non fanno che ripetere la versione del Gradenigo e in essi come è ovvio ci si riferisce ai congiurati come a rei e banditi. Non manca nemmeno la sentenza di condanna a Bajamonte Tiepolo per alcune irregolarità nella conduzione di Modone. La lettura e la scelta delle fonti su Bajamonte Tiepolo da parte dell'Abate risulta alla fine decisamente capziosa. Ipotizzerei che su questo atteggiamento possa aver pesato il sodalizio e forse l'amicizia di Tentori con un libellista fazioso e monarchico come Vittorio Barzoni, assieme al quale compose l'opuscolo "Dialogo di Eraclito e Democrito Redivivi", godibile satira dei tempi della Municipalità Provvisoria a Venezia. In altra sua opera riguardante la Storia di Venezia, il Barzoni non esita ad alterare i documenti stessi raccolti dal suo amico Tentori ai fini del suo libellismo antinapoleonico volto soprattutto a nascondere la complessiva responsabilità del Patriziato di Venezia nel tragico epilogo della Serenissima Repubblica. Vittorio Barzoni tra l'altro, nel suo "Rivoluzioni della Repubblica Veneta" (1800) esplicitamente attribuisce al Pietro Gradenigo e alla Serrata del Maggior Consiglio l'onore di avere avviato la trasformazione di una "tumultuante repubblica" in un governo dinastico ereditario, operazione meritoria che, a suo dire, è interamente compiuta nel XV Secolo. >---*---< Ora a me sembra che gli screzi personali nel Patriziato di Venezia fossero troppo lieve cosa per mettere in moto addirittura la macchina della sedizione. Tanto più che sia Bajamonte Tiepolo che i Querini erano famiglie antiche, che hanno sempre dato a Venezia fior di patrioti, prima della congiura e anche nei secoli seguenti. Molte altre ragioni logiche inducono a pensare che il conflitto fosse d'ordine ben più grave che personale o di prestigio familiare. Se davvero come vuol concludere il Tentori, loro scopo era la fine della Repubblica per l'instaurazione della tirannia, come mai lo fecero in così tanti? Se quello era lo scopo di Bajamonte Tiepolo, perché si unì a un uomo impopolare come Marco Querini? Bajamonte aveva il carisma e i mezzi per tentare l'avventura da solo, come si conviene a un tiranno. Dalla mitezza con cui vennero poi trattati i congiurati sopravvissuti alla sommossa e dal basso numero dei votanti alle risoluzioni contro di loro, si evince che il Doge stesso era consapevole del fatto che la congiura di Bajamonte Tiepolo aveva radici estese non solo fra il popolino ma anche fra gli Ottimati di Venezia. Da qui l'istituzione del Consiglio di Dieci con il compito di scavare a fondo nella nobiltà veneziana alla ricerca dei nostalgici della Repubblica. Del resto i congiurati e segnatamente Bajamonte Tiepolo, si risero del bando pronunciato contro di loro e continuarono ad abitare la limitrofa Terraferma, sotto attiva protezione di notabili padovani e soprattutto del Comune di Treviso, dove Bajamonte Tiepolo rimase fino al 1315, prima di ritirarsi definitivamente nei suoi possedimenti in Istria e scomparire tra le nebbie della Storia. >---*---< Vediamo meglio che cosa fu cambiato dalla Serrata del Maggior Consiglio nell'assetto istituzionale di Venezia. Fino al 1296 l'accesso al Maggior Consiglio era aperto a chiunque fosse da quel Consiglio chiamato a farne parte, per mezzo di vari sistemi di elettori e di sorteggi. L'ammissione al Maggior Consiglio era in sé ammissione alla Nobiltà degli Ottimati. Ovvero si selezionava fra il Popolo di Venezia chi avesse le doti per guidarlo. Si trattava dunque in Venezia di una Repubblica propriamente intesa, retta da una Aristocrazia di merito che costantemente si rinnovava. La prima proposta di mutare questo sistema si deve (secondo il Tentori) al Doge Giovanni Dandolo appoggiato dai tre capi della Quarantia nel mese di Ottobre 1286. La proposta era che si potesse ammettere al Maggior Consiglio solo chi ne avesse già fatto parte o avesse avuto il padre o altri antenati elevati a quell'onore. Eletto Pietro Gradenigo a Doge di Venezia, questi ripropose la parte con insignificanti modifiche il 6 Marzo 1296, ma la legge fu nuovamente rifiutata. Osserverei che con questo aumento del numero di elettori il Gradenigo di fatto allargava la base di un possibile consenso alle sue mire. Altra cosa degna di nota è che il Maggior Consiglio di Venezia in quegli anni subì una trasformazione numerica impressionante. Nel 1264 abbiamo 317 eletti, che con piccoli incrementi annuali diventeranno 502 nel 1268. Mancano i dati intermedi ma dopo la Serrata, nel 1310, il numero dei Membri del Maggior Consiglio è quasi raddoppiato, giungendo a 900. Tuttavia, quando si trattò di pronunciarsi contro Bajamonte Tiepolo e i suoi, al Maggior Consiglio si presentarono solo in 377. Questo fatto convinse Gradenigo della fragilità del suo potere reale e costrinse la punizione dei congiurati in ambito più simbolico che reale. Il Popolo di Venezia tentò una ribellione a questa svolta che lo estrometteva completamente dal potere nel 1299 sotto il comando di Marin Bocconio. I ribelli furono però traditi e i dodici capi, con il Bocconio stesso, vennero impiccati nel 1300. È possibile che questo tragico epilogo rendesse molto più prudenti gli altri sostenitori della Repubblica e che questi si dedicassero a un lungo lavoro sotterraneo prima di ritentare di scalzare la nuova oligarchia. Ma il lavoro ci fu, perché quando scoccò ancora l'ora fatale della rivolta nel 1310, se non furono in pochi a partecipare attivamente, furono moltissimi che rifiutarono di schierarsi apertamente contro i congiurati di Bajamonte Tiepolo e a favore degli oligarchi. Il Tentori e molti dei cronisti, per non parlare del già accennato Barzoni, inneggiano ai provvedimenti presi dal Gradenigo sia con la Serrata del Maggior Consiglio che con la repressione. A loro dire Venezia correva grande pericolo col rimanere nello stato di vera Repubblica aristocratica in cui si trovava. Solo raccontano che ogni anno vi era gran numero di cittadini che premevano per l'onore e l'onere di entrare in Consiglio, e la Serrata del Maggior Consiglio sarebbe stata effettuata per porre rimedio a questa situazione. A contraddire questo coro di sostenitori del potere dinastico, vi è innanzittutto l'innegabile fatto che il sistema di governo repubblicano aveva prodotto per alcuni secoli il rafforzamento, l'espansione e la crescita del prestigio di Venezia. Ritengo personalmente che in tale entusiasmo dei Cittadini di Venezia per la partecipazione al Governo si deva leggere la vitalità repubblicana che animava le coscienze, soprattutto tenuto conto del fatto che a quei tempi gli incarichi pubblici erano tutti senza corresponsione di denaro e spesso richiedevano invece che fosse il cittadino a spendere di suo per il lustro della carica. Abbiamo inoltre il parere non già di un cronista più o meno credibile, ma di un prestigioso uomo politico del '500, Donato Giannotti. Nel suo "Libro de la Ripublica de Vinitiani" (1520 circa), Donato Giannotti, incaricato dalla Repubblica di Firenze di studiare nel dettaglio le strutture di governo della Serenissima dopo l'esegesi tracciata da Guicciardini nel suo "Dialogo del Reggimento di Firenze", attribuisce alla "Serrata del Maggior Consiglio" un valore addirittura epocale nella Storia di Venezia. Egli vi distingue tre ere: quella prima dei consoli, dei tribuni e dei dogi, quella seconda a cominciare dall'istituzione del Maggior Consiglio e infine la terza e ultima, inaugurata appunto dal Gradenigo con la sua Serrata del Maggior Consiglio. Il Giannotti, nonostante le accurate ricerche negli archivi pubblici e privati, sostiene di non aver trovato alcuna ragione politica o sociale che dovesse portare alla Serrata del Maggior Consiglio, cioè alla modifica in senso oligarchico della struttura elettiva annuale del Maggior Consiglio. Ritengo l'opinione del Giannotti particolarmente significativa, poiché non si tratta con lui di un comune umanista, ma di un uomo politico cresciuto col Guicciardini e il Del Nero alla scuola di Marsilio Ficino. Uomo che fece della sua esistenza intera paradigma della dedizione alla politica e agli ideali repubblicani. Dal Giannotti (pag. 67) apprendiamo che secondo le sue ricerche l'ultimo Doge a essere eletto con suffragio popolare diretto fu Sebastiano Ziani ma che fu il Pietro Gradenigo a por fine anche alla formale approvazione popolare del Doge eletto. Da lui in poi il Doge viene presentato al popolo dal loggiato di San Marco senza pronunciare la famosa frase "Questo è il nuovo Doge, se vi piace". >---*---< Possiamo ancora verificare alcune "stranezze" nella versione ufficiale di quei lontani eventi. Prima fra tutte, perché la congiura prese il nome di Bajamonte Tiepolo invece che quello di Marco Querini che ne fu il vero suscitatore oltre che il primo "martire", mentre Bajamonte a rigore fu poco più che una comparsa a soggetto, su richiesta appunto del suocero Querini? La risposta a entrambe è secondo me da ricercarsi nella volontà di colpire l'immaginario popolare con una figura in cui fosse plausibile ravvisare il tiranno. Marco Querini era un nome troppo comune e compassato, appartenente a una grande casa mercantile. Boemondo d'altro canto era stato il nome più diffuso fra i re cristiani d'Oltremare ed è storicamente avvolto da un'aura di pietas cristiana. Bajamonte al contrario è un nome altisonante, che potrebbe ben figurare addosso a un bravo, a un condottiero, a un uomo di potere arrogante e imperioso. Boemondo inoltre è figlio di Dogi preclari e risulta più semplice attaccargli l'etichetta di aspirante tiranno per diritto ereditario. Ma lo svolgimento dei fatti dimostra che gli uomini che veramente il Gradenigo temeva erano i Querini e i Badoer, che furono infatti subito uccisi. Per Bajamonte Tiepolo si traccheggiò a lungo a colpi di messi e legati all'Assemblea dei Trecento di Treviso che attivamente protesse il Boemondo durante ben cinque anni, per poi lasciarlo andare libero senza che da Venezia fosse effettuata alcuna azione veramente incisiva nei confronti del reo. La condanna stessa pronunciata contro Bajamonte Tiepolo e i compagni che con lui si erano messi in salvo era stata ridicolmente mite rispetto alla capitale gravità del reato: quattro anni di soggiorno obbligato in vari luoghi della Terraferma. Solo per Paolo Querini figlio di Marco la pena in contumacia era più grave, sempre quattro anni di confino ma a Tunisi. Solo se i condannati avessero trasgredito a questi esili, sarebbe per loro scattata l'imputazione di tradimento. Trasgredirono tutti, Bajamonte Tiepolo in testa, limitandosi a trasferirsi a Mestre e Treviso ma l'imputazione capitale non scattò mai. Tale sentenza era stata del resto pronunciata da un Maggior Consiglio cui mancava il numero legale, essendosi la maggior parte dei consiglieri astenuti dal partecipare a quella riunione, cosa che il Tiepolo lesse come un appoggio nei suoi confronti e lo confortò nella decisione di non obbedire. Se il basso numero di partecipanti al dibattito sulla questione rinfrancò i congiurati (su 900 nobili se ne presentarono solo 377), non mancò di preoccupare il Gradenigo e i suoi, che ritennero di prendere misure drastiche non già contro Bajamonte Tiepolo ma contro i suoi beni rimasti a Venezia. Le sue proprietà in città furono rase al suolo e furono posti cippi e colonne d'infamia. Le proprietà di Marco Querini furono invece confiscate e la loro casa in Rialto fu convertita in pubblico macello. Si stabilì che il giorno di San Vito fosse celebrato in perpetuo con partecipazione della Signoria ai riti nella chiesa di San Vito e Modesto, che si sarebbe addobbata per l'occasione a spese dello Stato. Fu premiata la vecchia che aveva lanciato il mortaio sull'alfiere e la signoria si arrogò il potere di prendere ogni misura reputasse necessaria per estirpare le radici della congiura ed evitarne di future. Ma furono tutte misure di ordine emblematico, atte a colpire in effige e non in corpore vili. Non vi fu bando capitale né incitamento all'omicidio libero come avveniva solitamente con chi era dichiarato nemico contumace della Repubblica. Non vi fu promessa di liberare condannati per allettare i criminali abituali a farsi sicari del reo. Ancora, in quasi tutte le cronache citate dall'Abate Bajamonte Tiepolo viene descritto come persona generosa e molto amata dal popolo. Nel racconto di Tentori egli diviene misteriosamente persona altera, scostante e autoritaria. >---*---< Vi è poi la ricostruzione degli eventi di quella tragica giornata del 15 Giugno 1310. La ricostruzione presenta molte incongruenze. Il primo a giungere in Piazza fu il Querini con i suoi, essendosi Bajamonte Tiepolo "attardato" a saccheggiare la cassa degli "Ufficiali al Formento". Perché mai un uomo che si prefiggeva di impadronirsi delle intere finanze di Venezia avrebbe messo in pericolo il suo piano con il saccheggiare un ufficio periferico è cosa che solo i cronisti potrebbero spiegare, ma nessuno di loro si pone il problema. Badoero Badoer fu intercettato alla foce del Brenta da Ugolino Giustinian Podestà di Chioggia e decapitato per direttissima appena tre giorni dopo. I suoi accoliti vennero invece impiccati con la medesima urgenza. Questi due episodi dimostrano che i congiurati erano attesi con largo anticipo, non sarebbero infatti state sufficienti le poche ore di ritardo di Bajamonte Tiepolo, ad allertare i presidi di Chioggia e Torcello che risposero all'appello di Gradenigo. Il Podestà di Murano al contrario rifiutò di soccorrere il Doge. Tutte le cronache ripetono lo stesso ritornello, che quando Bajamonte Tiepolo raggiunse le Mercerie dell'Orologio si scatenò un gran turbine di vento e pioggia che disperse i suoi uomini. La circostanza non appare credibile, e sembra inserita per suggerire una specie di disapprovazione Celeste all'azione dei rivoltosi. Come infatti pensare che uomini armati, decisi ormai a tutto, abituati ad affrontare le tempeste in mare aperto, si facciano disperdere da un turbine di vento al riparo delle strette calli di Venezia? Nell'episodio della "vecchia col mortaio" che avrebbe abbattuto il portabandiera di Bajamonte Tiepolo lanciandogli un mortaio di pietra, la versione della stessa vecchia fu che l'atto non sarebbe stato volontario ma causato dallo spavento. La vecchia stava macinando la farina quando fu sorpresa dal rumore del tumulto. Affacciatasi per la curiosità con il mortaio ancora in mano, questo le sarebbe sfuggito per la sorpresa di quel che vedeva. Se Bajamonte Tiepolo fosse stato animato da una personale sete di potere, sarebbe stato logico che il suo alfiere portasse lo stendardo con le insegne della sua casata. La bandiera dell'alfiere abbattuto dal mortaio portava invece una scritta: "Libertas". E ancora, le cronache raccontano che i congiurati di Bajamonte Tiepolo, nella Merceria, sarebbero stati bersagliati dalle finestre con un "fitto lancio di grosse pietre". Se non che a Venezia sono molto rare le pietre anche piccole come i sassi. Ben lo so come bambino che amava tirare con la fionda... L'evento è impossibile a meno ché la gente si fosse messa a demolire i muri delle case per procurarsi i proiettili. Faccio infine presente che la lapide in marmo raffigurante la "vecja col morter" (Giustina o forse Lucia Rossi) che fa bella mostra di sé sulla casa che si suppone da questa abitata nonché il tassello di marmo inserito nel selciato nel punto in cui sarebbe caduto l'alfiere di Bajamonte, riportante la semplice data "XV . VI . MCCCX" non risalgono affatto come generalmente si pensa, all'epoca dei fatti. Non mi è chiaro perché il nuovo proprietario decise di apporre quelle lapidi; forse fu una operazione commerciale per aumentare il valore dell'immobile, ma non possiamo dimenticare che la famiglia Vivante aveva ricoperto un ruolo determinante nella prima campagna d'Italia di Napoleone e nella caduta di Venezia dallo stato di Repubblica (vedi "Trattato di Sant'Eufemia" e "Raccolta Cronologico Ragionata..."). >---*---< In conclusione, mio caro Abate Tentori, pur manifestandole la più sincera gratitudine per il suo lavoro di collazione documentale, sono costretto ancora una volta a sbugiardare i "Corollari" con cui lei ama chiosare le sue raccolte. Si tratta di fatti molto remoti in merito ai quali la documentazione è scarsa e lacunosa, tuttavia gli effetti di quei lontani eventi hanno avuto influenza di lunghissima durata sulla nostra antica Repubblica ed è assai probabile che l'instaurazione di un potere dinastico sul corpo repubblicano di Venezia sia stato uno dei fattori determinanti nella sua progressiva corruzione e caduta. Estromesso infatti il Popolo da una attiva partecipazione al governo, quello sempre più si allontanò anche dalla coscienza e dall'impegno politico che avevano fatto di Venezia una potenza senza precedenti. Mentre il popolo si invigliacchiva verso lo stato di sudditanza, il Patriziato si imbolsì, a sua volta sempre più emarginato da responsabilità e potere che si andavano accentrando in sempre più ristrette mani. >---*---< Marco Querini, Badoero Badoer, Boemondo Tiepolo e i loro compagni appaiono dunque con assai maggiori probabilità come dei veri patrioti dello spirito originario di Venezia che come dei mestatori, qualifica che sembra invece spettare al Pietro Gradenigo e ai suoi, loro sì impregnati dell'arroganza e della meschina avidità che sempre costituiscono minaccia alle Repubbliche. Umberto Sartori NoteNota 1 - Bene per noi che obbedì a quel comando perché durante la sua ricerca su Bajamonte Tiepolo, in quegli Archivi segreti "spalancati dalla furia democratica", si imbatté in una filza di documenti diplomatici contenente centinaia di dispacci che la Signoria aveva tenuto nascosti al Senato già a partire da una ventina d'anni prima del patatrac veneziano. Tentori si assunse l'onere di copiare integralmente i più importanti e di cercare di inquadrare questa manovra occulta dei Savi del Consiglio nella complessità delle vicende che portarono alla caduta di Venezia. Non riuscì nell'intento, ma regalò ai posteri un filo conduttore di documenti che ha permesso a me, due secoli più tardi, di ricostruire documentalmente e comprendere non solo quelle vicende, ma anche più in generale gli eventi internazionali di quell'epoca e i successivi, a partire dalla cosiddetta "Rivoluzione Francese", i cui prodromi e la cui vera natura sono così ben tratteggiati nelle relazioni dell'allora Ambasciatore a Parigi, Antonio Cappello; relazioni di cui il Senato Veneziano fu tenuto rigorosamente all'oscuro. Nota 2 - Ho assegnato questo titolo anacronistico di "Pasionarie" a un gruppo di donne che furono molto attive durante la seconda metà del Settecento nel promuovere "le nuove idee d'Oltralpe", ovvero i filosofi francesi come Helvetius, Voltaire Rousseau &C.. Attorno alla decana Fiorenza Ravagnin, editrice "femminista" attiva dai primi decenni del XVIII secolo fino alla fine, ruotarono con maggiore o minore importanza Giustina Renier Michiel, Marina Querini Benzon, Isabella Teotochi Albrizzi, Maddalena Contarini (moglie del Bailo Bartolomeo Gradenigo) e forse altre di cui non ho trovato notizia. Particolare rilievo assunse la più equivoca e malfamata di loro, Caterina Dolfin, meglio nota come "la Dolfina" o "la Trona". Questa donna avida, vendicativa e intrigante, degna discepola dell'Helvetius si direbbe, riuscì ad accalappiare uno degli uomini più potenti dell'oligarchia veneziana, Andrea Tron. Caterina Dolfin non si limitò ad affiancare il marito nei suoi loschi peculati: fu anche diretta protagonista dell'ultimo grande attacco portato alla "guardia repubblicana" di Venezia, riuscendo dopo inenarrabili persecuzioni pubbliche a far bandire capitalmente l'integerrimo Segretario Circospetto Pietro Antonio Gratarol. Dopo la terribile vicenda del Gratarol, cui spero di poter dedicare apposita pubblicazione, non vi fu più nessuno che osasse nell'apparato repubblicano opporsi agli oligarchi usurpatori e questi ebbero via libera per costruire quei giochi che vent'anni dopo avrebbero consegnato inerme la Serenissima all'orda napoleonica e continuato a infamare Bajamonte Tiepolo.
Edizione HTML a cura di Umberto Sartori |